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Demarco: Noi e la città, cosa ci dice quel pino crollato in via Aniello Falcone

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Sodano_crolloalbero

Se è vero che tutti avevano denunciato la pericolosità del pino caduto in via Aniello Falcone, se è vero che tutti avevano avvertito i vigili del fuoco o il Comune, se è vero che tutti avevano notato la minacciosa inclinazione del tronco o la squilibrata disposizione dei rami, e  se addirittura c’è stato chi aveva notato il sollevamento di una enorme zolla alla base dell’albero e aveva lanciato l’allarme; se è vero tutto questo e ciò nonostante il pino è crollato lo stesso uccidendo Cristina Alongi, allora il quadro non torna. Non torna che di tutte le segnalazioni, di tutte le telefonate, di tutte le sollecitazioni pervenute agli uffici competenti non ci sia traccia alcuna.

“A noi nulla risulta”, ha detto il vicesindaco Sodano, responsabile dell’ambiente. Possibile? Sembra incredibile. Eppure è successo. E se è successo vuol dire che a spezzarsi non è stato solo un albero, ma un pezzo di quel meccanismo complesso che garantisce il governo della città. Un meccanismo fatto di fiducia e di partecipazione. Fiducia nelle istituzioni e partecipazione alla loro attività.

E di solito, più si ha fiducia, più si partecipa. Viceversa, quando la fiducia cala, la partecipazione tende a cristallizzarsi in mera indignazione, e per giunta, il più delle volte, postuma. Si consolida, così, un vero e proprio  processo di deresponsabilizzazione generalizzata. Tutte le maglie si allargano. Non ci sono più procedure certe, prassi consolidate. Non c’è più chi certifica e chi controlla. Nella consapevolezza che tutto sia ormai lasciato al caso, la denuncia di un’emergenza o di un disservizio è intenzionale più che reale, improvvisata più che formale, verbale anziché scritta, anonima piuttosto che firmata.

Qualcosa del genere è accaduto anche prima del crollo di Chiaia, sebbene lì la protesta e la denuncia arrivarono almeno alle redazioni dei giornali. E tuttavia, solo dopo il crollo si è riusciti a prendere piena coscienza del pericolo che minaccia un intero quartiere. Forse una vigilanza più “strutturata” si è avuta nel caso degli sprechi per la Coppa America. Ma anche lì tutto si è mosso ai margini dei grandi partiti o delle grandi associazioni di massa. 

Quando Tocqueville andò in America tornò carico di meraviglia per l’organizzazione del sistema democratico, per la partecipazione civile e la robustezza dei corpi intermedi dello Stato, per i controlli dall’alto e dal basso. Se qualcuno, oggi, volesse redigere un rapporto sullo stato della democrazia a Napoli rimarrebbe sconvolto dalla confusione e dall’approssimazione che regnano sovrane. Altro che assemblee di popolo, trasparenza e partecipazione civile: troverebbe, semmai, molta buona volontà dal basso, qualche rara prova di civismo, un volontariato generoso ma relegato in una sostanziale inconcludenza, e poi una devastante distrazione  dell’Amministrazione pubblica. Troverebbe una totale assenza di regole,  di piani dettagliati, di cronoprogrammi, di indicazioni su chi deve fare e cosa.  Troverebbe una città quasi del tutto priva di punti di riferimento, tanto che la magistratura, nel caso delle buche stradali, si è spinta addirittura a indicare, a sindaco e assessori, la scaletta delle priorità a cui uniformare l’attività amministrativa. Troverebbe, come nel caso della polemica sull’uso di Piazza Plebiscito, una città di gerarchie poco efficienti ma molto conflittuali, di poteri pubblici che non si riconoscono, di uffici solo apparentemente aperti al pubblico.

A fronte di tanta irresponsabilità diffusa, non stupisce che Napoli abbia più di mille giardinieri, quattro volte quelli di Torino; almeno duemila netturbini, più di Milano che però ha più abitanti; più di ventimila dipendenti comunali, quasi la metà della burocrazia che sorregge l’intera comunità europea, e servizi di pessima qualità. Tra i peggiori d’Italia. Non stupisce perchè è più facile assumere personale che dirigerlo, è più comodo, ai fini del consenso, ingrossare l’esercito dei dipendeti piuttosto che renderlo produttivo. Molti dipendenti pubblici si fanno in quattro, lavorano per sé e per gli altri che si imboscano, che si barricano negli uffici, che si danno malati, che si dichiarano vecchi e inabili a cinquant’anni. E tuttavia la macchina cittadina gira a vuoto, spreca risorse, perde tempo, e troppo spesso si trastulla con l’effimero anziché misurarsi col necessario.
Marco Demarco su VediNapoli (blog del Corriere del Mezzogiorno)

 

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