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Borghesia e plebe nella Napoli Arancione

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Il “lungomare” sarà stato pure liberato, ma i luoghi comuni sono duri a morire. La litoranea Caracciolo-Partenope-Sauro, perduta la funzione di collegamento degli antipodi costieri, è ormai un’area disponibile per le attività circensi, medie e grandi attrazioni e manifestazioni di associazioni ed è, prodigiosamente, diventata uno strumento in grado di affrancare il proletariato urbano dalle condizioni di sottosviluppo sociale. Almeno così appare dalla lettura delle analisi sociologiche redatte dagli autorevoli collaboratori del primo cittadino di Napoli.

Uno di questi maître à penser per arginare la valanga di critiche all’ennesima manifestazione-obbrobrio, accompagnata come sempre da un’invereconda scia di bancarelle e danze tribali, ha tirato fuori una singolare teoria secondo la quale le “maestose architetture” - ovviamente borghesi - “che fronteggiano Castel dell'Ovo”, siano state realizzate per celare ai sensibili e pudibondi occhi borghesi, l’insopportabile vista di «un ghetto, la cui segregazione urbanistico-spaziale è funzionale alla segregazione sociale che si è determinata ai danni della popolazione che ci vive: in condizioni malsane, di miseria e di dolore».

Ovviamente, secondo il sagace analista, «la pedonalizzazione del Lungomare ha fatto sì che questa plebe dolente sia ancora più presente in strada, rispetto a quando c'erano le macchine. Restituire il Lungomare alla città ha significato restituire quello spazio ameno anche a quella parte di Napoli. Una parte di Napoli che una certa borghesia reazionaria non vorrebbe vedere». Ossia invece di intervenire sui tuguri, il Comune invita amorevolmente gli sfortunati cittadini a vivere per strada. Quello che già ordinariamente fanno da generazioni.

Sorvolando sul lessico un po’ retrò, più consono agli scrittori post-unitari della miseria di Napoli che ad un moderno cultore delle scienze sociali, ci si chiede ma la borghesia è reazionaria per antonomasia? E poi reazionaria verso cosa? Sta forse lavorando per ripristinare un assetto storicamente superato o si sta opponendo con fermezza a tendenze innovatrici e progressiste? Non mi pare che esistano i presupposti per tale definizione, a meno che l’arguto estensore della nota non intenda far passare le manifestazioni di pessimo gusto come il rivoluzionario prodotto dell’ordine nuovo instaurato dal sindaco de Magistris.

Luoghi comuni, peraltro, più appropriati ai quartieri del centro antico che accolsero la “miserevole plebe” scacciata dal Risanamento che al Pallonetto di Santa Lucia.
In città tante erano le comunità di arti e mestieri. Molte sono ricordate dalla toponomastica, di altre, come quella dei pescatori della Marinella, se n’è persa ogni traccia. Pochissime sono giunte ai giorni nostri.

La comunità dei luciani è una di queste. Da tempi immemorabili continua a testimoniare l’esistenza dello stretto legame tra il mare ed i napoletani. Risiedono in un pezzo di città fatto di stradine tortuose che si arrampicano tra le pendici e la sommità del monte Echia, tra il quartiere di “Pizzofalcone” e Santa Lucia. Il “presepe” dove fino agli Anni ’60 vivevano in perfetta continuità storica i pescatori ed i pescivendoli, i barcaioli e gli ostricari del Borgo Marinaro. Il “ghetto urbanistico-spaziale” la cui inaccessibilità consentì a questa comunità di pescatori di abbandonare gli antichi e sudati gozzi per i più redditizi motoscafi blu. Cittadini che celebravano con la festa della Madonna della Catena il loro ancestrale vincolo col mare. La corsa delle tinozze, l’albero della cuccagna orizzontale al mare, il ripescaggio della sacra effige. La festa della ‘Nzegna. Una Napoli che non c’è più.

Quella che rimane - ed in questo il collaboratore del sindaco ha ragione - è la permanenza di ampie sacche di degrado sociale ed urbanistico che procedono senza soluzione di continuità dalla periferia al centro della città. Si ritrovano “a macchia di leopardo” sparse un po’ dappertutto, dalla Sanità alla Vicaria, dal Porto a Montecalvario, e oltre. Però lungo l’asse di collegamento litoraneo, oltre allo scempio arancione della Villa Comunale, anche impegnandosi si fa fatica ad incontrarne una. Occorre appunto volgere lo sguardo alle «gialle carceri di Piranesi, fra scale e condotti, scavate in un tufo malsano, fra muffe velenose, senza che un raggio di sole possa esplorare le caverne in cui si aprono dignitosi spazi di intimità: case che sono bassi; case che sembrano loculi».

Una realtà urbana che non può essere più tollerata. Napoli è la città dei grandi eventi, della rinata “industria del forestiero”. Occorre intervenire sul patrimonio storico-monumentale, sulla rete stradale, determinare condizioni di sicurezza, assicurare la mobilità, valorizzare le risorse culturali, attuare interventi di sostituzione edilizia, procedere alla bonifica delle discariche e delle aree dismesse dall’industria.

Al momento gli unici interventi previsti consistono nel Grande (solo nella definizione) progetto del Centro antico e nella riqualificazione di un primo tratto della litoranea che nella priorità degli interventi non occupa certo le prime posizioni. E intano si descrivono i miracoli del lungomare liberato, «La bellezza del Lungomare può essere l'antidoto alla marginalità di questa gente: da sempre confinata in vicoli dove non si vede il mare. Mare che deve essere appannaggio della nobiltà di Posillipo, secondo questi soloni. Credo che questo Lungomare se lo meriti innanzitutto questa gente semplice».

Nobili e plebei, ma in quale secolo siamo. Da sempre via Caracciolo – grazie alle dimensioni dei suoi marciapiedi – è la passeggiata dei napoletani, senza distinzioni di censo o di casta. Del resto, è dal 1799 che, a Napoli, borghesi e lazzari s’ignorano. Reciprocamente indifferenti, attenti come sono alla cura dei rispettivi interessi che molto spesso non coincidono con quelli della città.

E’ invece compito precipuo dell’amministrazione comunale far si che gl’interessi generali prevalgano sulle particolarità. Una composizione degli interessi che per ovvie ragioni non può prescindere anche da una profonda analisi delle “cause sociali della povertà”. Ma forse è proprio la mancanza di questo studio che induce autorevoli schegge dell’amministrazione arancione ad utilizzare a sproposito argomenti che meriterebbero invece risposte complesse e puntuali e non la delittuosa elaborazione di un’artificiosa ed anacronistica contrapposizione dei ceti sociali.
Lidio Aramu

 

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