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Se la caccia al nemico rispolvera l'odio di classe

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Sono preoccupato. Lo sono per le manifestazioni di violenza che tracimano dal web senza veli. Scene barbariche di decapitazioni, stupri, linciaggi che all’epoca del telefono a gettone e della televisione in bianco e nero non riuscivamo neanche ad immaginare. Assisto annichilito a scontri cruenti tra fazioni, popoli, etnie e religioni che credevo appartenessero ormai alla storia. E la mia preoccupazione cresce nel constatare l’imprevedibilità e la velocità con cui si passa dallo stato di pacifica coesistenza a quello di feroce contrapposizione. Il confine tra le due condizioni è molto labile.

Qualcuno potrebbe obiettare che la mia inquietudine sia eccessiva. Forse è il riflesso di uno stato d’animo derivante dal mio vissuto giovanile quando gli steccati ideologici erano alti e robusti. Ho attraversato gli Anni di piombo da uomo delle istituzioni, conquistando il rispetto, se non la stima, di quelli che le ragioni storiche e politiche volevano che fossero miei avversari. Ho conosciuto la tensione, l’incomunicabilità, e, per fortuna raramente, l’odio e ringrazio Iddio che tutto ciò sia finito.

Eppure, guardando ciò che accade in città, avverto un’inquietante sensazione derivante dalla rarefazione dei dialoghi. Sempre più si annunciano e s’impongono come verità rivelate discutibili opinioni, artificiosamente si spacca la città, si minano gli equilibri sociali, si costruisce un nemico. Effetti indesiderati ed a cascata del dualismo delle assisi istituzionali? Può darsi…

La ricerca del nemico a tutti i costi è un fenomeno ben noto alla psicoanalisi. E’ una necessità che si sostanzia nell’individuazione di un altrui su cui riversare, catarticamente, le colpe della propria impotenza. Ma non solo. Avere un nemico – ha scritto Umberto Eco - è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell'affrontarlo, il valore nostro.

La fisionomia del nemico e mutevole ed assume a seconda delle necessità del principe di turno quella di un gruppo etnico, di un partito politico, di idee politicamente non corrette, di un determinato ceto sociale. Capita persino di riesumare categorie politiche affidate da tempo alla storia pur di far leva su un sentimento comune.

Anche a Napoli, l’esigenza di avere un nemico è fortemente avvertita dall’amministrazione comunale. Del resto è nella fisiologia della politica. In principio il nemico dichiarato del sindaco de Magistris era il vecchio modo di far politica. Una gestione della città sempre più influenzata dagli interessi di bottega e lontana dai diritti della gente. Cavalcando l’onda dell’antipolitica riuscì a polarizzare con la sua promessa dirompente, un consenso che andava ben oltre i voti non certo plebiscitari che aveva raccolto appena qualche tempo prima. Sfortunatamente arrivò la regata e con essa, la decisione estemporanea e monocratica (nel suo programma elettorale tale provvedimento non esisteva) di liberare la Caracciolo dalle auto e la mutazione antropomorfa del nemico. L’oggetto del pubblico ludibrio diventa la comunità che risiede sulla collina di Posillipo perché continua a protestare per i disagi indotti dalla chiusura dell’arteria stradale litoranea.

Quindi, spaccata la città senza neanche celebrare i canonici riti democratici della partecipazione alle scelte urbanistiche, Palazzo San Giacomo dà la stura ad un profluvio di definizioni non proprio gentili nei confronti dei posillipini colpevoli di appannare con i loro lamenti gli esiti radiosi e progressivi della rivoluzione arancione.

Col passar del tempo i disagi aumentano e alle proteste dei posillipini si aggiungono quelle dei cittadini di Chiaja. Altro colpo di teatro: il nemico cambia di nuovo volto. I tardo-giacobini fanno presto il calcolo. Chiaja più Posillipo uguale Borghesia, sentina di tutti i mali di Napoli. E dagli all’untore. 

Dell’iniziale consenso concesso sulla parola al sindaco de Magistris ormai non esiste più tangibile testimonianza. Le attese popolari andavano ben oltre la liberazione della Caracciolo. La città ha invece ottenuto l’abbandono di ogni politica di valorizzazione del centro storico, una pubblica mobilità da far invidia ai paesi del Quarto mondo (sia inteso senza offesa per quest’ultimo), la perdita di preziosi servizi sociali, la violazione dei vincoli paesaggistici, la distruzione parziale della Cassa armonica, lo sfregio al monumento ad A.Diaz, le offese permanenti alla storica Villa comunale, fantasiosi bilanci…. L’elenco dei misfatti potrebbe continuare per pagine. Ed ecco la necessità di costruire altri nemici. Il capro espiatorio su cui riversare l’impotenza del principe regnante.

La lista dei nemici della rivoluzione si allunga: partiti di destra e di sinistra, posillipini e chiaiesi, guelfi e ghibellini, watussi e pigmei, indiani e cow boy…. Comprensibile. E’ una discutibile forma di autodifesa e rientra nelle regole del gioco. Quello che invece trovo estremamente preoccupante ed ignobile è il tentativo, nella spasmodica ricerca di pretestuose giustificazioni al fallimento di una immaginaria rivoluzione, di alterare la pace sociale.

Con sempre maggiore frequenza ascolto e/o leggo argomentazioni che fanno rabbrividire e che riportano alla mente l’età dei grandi conflitti sociali. Del proletariato che deve liberarsi dalla cappa opprimente della borghesia parassitaria. Un proletariato costretto a turni di lavoro malpagati e disumani e a vivere come neanche le bestie vivrebbero.
Ma si rendono conto di quello che dicono e scrivono i giornalisti degni dell’Agenzia Stefani di Manlio Morgagni?

In un’epoca come la nostra, caratterizzata da una profonda crisi economica, i cui effetti rendono labili gli equilibri economici e sociali faticosamente raggiunti, non è forse delittuoso incitare all’odio interclassista? Io credo proprio di sì.

Non occorre essere degli specialisti in psicologia sociale per comprendere quale sia il ruolo del nemico in un moderno sistema di propaganda e gli effetti prodotti dalla sinergia propaganda-azione nello scatenare forti suggestioni nelle masse proletarie. Per averne idea basta scorrere le pagine di color rosso sangue scritte da una rivoluzione vera, quella francese.

Napoli ha bisogno di tante cose, ma non di un’anacronistica lotta di classe, di suddivisioni manichee. Ha bisogno soprattutto di tornare a dialogare, di confrontarsi democraticamente sui progetti di trasformazione della città, sulle priorità da dare alle scarse risorse economiche disponibili, sulla necessità di rimettere la solidarietà sociale al centro delle scelte politiche, sulla definizione dei ruoli e delle funzioni da assegnare alla città, su di una tutela vera dei beni comuni nell’interesse popolare.
L’odio di classe, la violenza, le rivoluzioni lasciamole ai libri di storia. Scriveva Marx che, quando si ripetono, le tragedie della storia diventano farse. La politica è altro. E’ un atto di carità cristiana verso il prossimo, non dimentichiamolo. Mai.
Lidio  Aramu

 

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