La Riforma Fornero alla prova dell’art.8

E’ trascorso appena un anno da quando il legislatore, con l’articolo 8 del d.l. 138 del 13 agosto del 2011, convertito dalla legge n. 148 del 2011, ha affidato ai sindacati la responsabilità di risollevare le sorti di un mercato del lavoro caduto in una crisi profonda e capace di generare serie preoccupazioni anche tra gli altri  Paesi membri dell’UE.
L’articolo 8, come emerge dalla cronaca del tempo, è stato salutato con grande entusiasmo dalle forze politiche tanto che, a fine ottobre del 2011, l’allora premier italiano, Silvio Berlusconi, con una lettera dai toni rassicuranti, annunciavaall’UE significativi cambiamenti in atto del mercato del lavoro italiano.
Gli entusiasmi a ben guardare non erano ingiustificati. Ed infatti, nell’ottica di aumentare la produttività delle imprese e con essa l’occupazione, l’articolo 8 consente ai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale o territoriale o anche alle loro rappresentanza aziendali di sottoscrivere contratti di secondo livello applicabili a tutti i lavoratori dell’impresa, iscritti o meno ai sindacati stipulanti, ponendo cosi fine alla lunga querelle circa l’efficacia soggettiva di detti accordi.


Ma soprattutto, consente a questi accordi di intervenire, derogando anche in peius alla legge e alla contrattazione collettiva nazionale, nelle gran parte delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e la produzione, come ad esempio: le mansioni del lavoratore, i contratti a termine, i contratti a orario ridotto, o ancora i casi di ricorso alla somministrazione di lavoro, le modalità di assunzione e la disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, oppure infine la trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e persino le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro.

Se le cose fossero andate secondo i piani, le parti sociali avrebbero avuto l’opportunità di ridisegnare il mercato del lavoro ma soprattutto di farlo a partire dal livello più basso di contrattazione, come da molti da tempo auspicato.
Ed invece, salvo rare occasioni, quell’articolo 8 è rimasto sino ad oggi inattuato, o per meglio dire una lettera morta. Ciò è verosimilmente avvenuto per due ragioni.
Anzitutto, probabilmente perché i sindacati, preoccupati dall’intrusione dell’esecutivo nella sfera dell’autonomia collettiva, hanno preferito non dar corso alle modifiche apportate con un colpo di mano  dal governo  al sistema di relazioni industriali.

Non a caso, nel settembre 2011, hanno apposto  all’accordo interconfederale sottoscritto alla fine del giugno dello stesso anno una clausola con cui hanno concordato che “le materie delle relazioni  industriali e della  contrattazione  sono  affidate (n.d.r. solamente)  all'autonoma  determinazione  delle parti”.
Ma, altrettanto probabilmente perché i sindacati hanno preferito non assumersi la grande responsabilità di essere gli attori del cambiamento in chiave di crescita del mercato del lavoro.

In questo contesto, si iscrive il recente intervento del legislatore che, preso atto della defezione del sindacato, sulla scorta di un disegno di legge e in un convulso giro di passaggi parlamentari, ha ridisegnato la disciplina delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e la produzione, già oggetto del famoso articolo 8.

Ne è venuta fuori la legge n. 92 del 2012 (come modificata dalla legge n. 134 del 2012 di conversione del d.l. n. 83 del 2012), rubricata “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, che tutti conoscono più semplicemente come riforma Fornero.

Coerentemente con le premesse da cui prende le mosse, la riforma sembra non nascondere il sentimento di sfiducia verso l’azione del sindacato e affidare, per converso, ai giudici il ruolo di primi attori del cambiamento.
In altre parole, la riforma, per un verso, concede al sindacato spazi più limitati rispetto a quelli di cui ha goduto durante la scorsa legislatura, per altro verso, investe i giudici di un elevata discrezionalità nella scelta delle  questioni inerenti la tipologia del rapporto di lavoro venuto in essere tra le parti come in quelle relative alle cause che hanno dato origine all’eventuale epilogo di esso.

In questo senso, basti considerare che al giudice spetterà valutare se il livello di formazione teorica o pratica del lavoratore sia tale da escludere la presunzione di coordinamento e continuità relativa a prestazioni rese da titolari di partita IVA al ricorrere di determinate condizioni; o ancora valutare, in assenza dell’intervento della contrattazione collettiva, quali siano le attività meramente ripetitive o esecutive che non possono integrare quel progetto che è condizione di legittimità della collaborazione coordinata e continuativa; o infine, valutare quali siano le prestazioni di elevata professionalità che non fanno scattare la presunzione di subordinazione di un rapporto di lavoro a progetto.

Sempre i giudici saranno poi chiamati a declinare la categoria delle “manifesta insussistenza” in relazione al fatto posto a base di un licenziamento per motivo economico e ad applicare quindi la tutela reintegratoria  o quella risarcitoria a seconda che tale fatto sia o meno manifestamente insussistente.

La strada del cambiamento, tuttavia, è fitta di insidie: nulla esclude dunque che la riforma possa cadere in un’imboscata. Potrebbe accadere, infatti, che i sindacati, determinati a giocare di nuovo un ruolo di primo piano sulla scena e, in questo senso, a promuovere  l’aumento di produttività della imprese come la salvaguardia dell’occupazione, ricorrano a quel famoso articolo 8, derogando (legittimamente) alla nuova riforma del lavoro con il risultato di  vanificarne gli effetti!
Ciò che del resto, alla fine dello scorso agosto, è già accaduto alla Golden Lady dove i sindacati (legittimati), nell’ottica di  garantire una maggiore occupazione a livello nazionale evitando nel contempo una crisi occupazionale, hanno con un’intesa aziendale posticipato di 12 mesi la stringente disciplina sui contratti di associazione in partecipazione prevista dalla riforma Fornero.
Ora, se tale intesa rappresenta tecnicamente una deroga in peius alla disciplina legislativa  posto che rinvia di un anno l’azione di contrasto all’abuso del contratto dell’associazione in partecipazione predisposta dal legislatore a tutela dei lavoratori, nella sostanza, ha l’effetto di salvaguardare l’occupazione degli associati in partecipazione presso l’azienda.
Diversamente, infatti, la Golden Lady sarebbe stata costretta a convertire in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato tutti i contratti  di associazione in partecipazione stipulati in assenza dei requisiti introdotti dalla legge Fornero, con conseguente (serio) rischio di crisi aziendale.

Sicuramente, il legislatore della riforma ha tenuto in conto che l’articolo 8 vaga come una mina pronta ad esplodere tant’è che, con riferimento alla disciplina del contratto  del termine senza causale, ha ad esempio previsto che essa può essere derogata  a livello interconfederale o di categoria e solamente in via delegata a livello decentrato, stabilendo così una gerarchia tra le fonti; ma altrettanto sicuramente, non potrebbe far molto se l’articolo 8 “esplodesse” davvero, atteso che non vi sarebbero, almeno al momento, le condizioni politiche per modificarlo.
In definitiva, non resta che sperare che le parti sociali maneggino l’articolo 8 con cura, soprattutto ora che il Paese è soffocato da una disoccupazione al 10,5%, che tra i giovani ha un‘impiccata ad un tasso record del 33,9%, e di fronte a 150 tavoli di crisi aziendale aperti al Ministero dello Sviluppo Economico per circa 180.000 lavoratori coinvolti e oltre 30.000 esuberi.

Ciro Cafiero, Assistente in Diritto del Lavoro presso l'Università LUISS Guido Carli