Achille della Ragione: "Il più grande tra i nuovi registi"
Tra i registi della nuova generazione, Paolo Sorrentino, nato a Napoli 43 anni fa e da sei anni residente a Roma, è certamente il più grande. Dal 2001 ad oggi ha girato sei film e per cinque volte è stato selezionato per il festival di Cannes. Ha vinto David di Donatello, nastri d’argento ed il Prix du Jury a Cannes per il Divo nel 2008, mentre nel 2004 con Le conseguenze dell’amore aveva già fatto incetta di premi. Ha inoltre scritto numerose sceneggiature ed un romanzo - Hanno tutti ragione, che si è rivelato un successo editoriale.
Memorabile fu il suo film su Andreotti, che gli permise attraverso il sommo statista di raccontare le strutture del potere.
Prima di girare il film si recò due volte a trovare il senatore a vita nel suo studio di San Lorenzo in Lucina. Li ricorda con grande emozione, perché incontrare Andreotti significa confrontarsi con un personaggio mitologico. Accompagnato da Giuseppe D’Avanzo di Repubblica, non azzardò domande sulla mafia o sul delitto Moro, anche per la nota abilità del suo interlocutore a schivare le domande più insidiose, ma ne ricavò tanto da poter delineare non solo il ritratto di un uomo straordinario, ma anche di rappresentare i delicati meccanismi con cui si estrinseca il potere.
Quest’anno il travolgente successo di pubblico e di critica con La grande bellezza. Cinquant’anni dopo La dolce vita, Sorrentino (con Umberto Contarello) torna ad interrogarsi su Roma. Fellini lo faceva attraverso un giornalista con ambizioni letterarie (il Marcello Rubini di Mastroianni), Sorrentino attraverso un letterato che si è ridotto a fare il giornalista (il Jep Gambardella di Tony Servillo), ed il cambio di prospettiva è già significativo della decadenza e dell’involuzione. Notti passate in vacue feste, amicizie senza spessore, incontri tra egoismo e solitudini, cinismo coperto dai sorrisi: chi se ne distacca, come il Roman di Verdone e la Ramona della Ferilli, è perché sente più di altri il peso del fallimento o della finitudine. Il film mette in mostra, a volte con scene indimenticabili (la performance all’acquedotto Claudio, l’incontro a sorpresa con Fanny Ardant, l’acquisto del vestito da funerale, la giraffa a Massenzio), le sabbie mobili fatte di mondanità e chiacchiericcio in cui nuovi ricchi e vecchi intellettuali affondano. Ma con un eccessivo compiacimento per la replica letteraria e troppo “senno di poi” per ritrovare e rinnovare la lucidità felliniana.
Se la grande bellezza è un film suggestivo, il merito è anche della bravura di Tony Servillo, attore prediletto da Paolo Sorrentino e in una certa misura alter ego del regista sullo schermo (come lo fu Mastroianni di Federico Fellini). Questo è stato il loro quinto set assieme, perché nel 2005 hanno girato anche una versione per la TV di Sabato, domenica e lunedì, celebre commedia di De Filippo. Proprio il teatro è la passione che li accomuna. Quel teatro che Servillo cominciò a fare da ragazzo nell’oratorio salesiano di Afragola. Oggi per lavoro gira l’Europa, ma conserva le sue radici e la famiglia (la moglie Manuela e figli Eduardo e Tommaso) a Caserta.
«Il mio Jep è un dissipatore di vita e di talento», spiega Servillo (54 anni), «il suo tratto è l’ironia, intesa come una passione che prende le distanze. La risata che sa sostituirsi alla malinconia, “Si ride per nun chiagnere”, si dice a Napoli. Soltanto un Napoletano come Jep poteva raccontare con tanto disincanto Roma». La stampa internazionale ha accolto con favore “La grande bellezza”. Per il “the Guardian” il film «significa Roma, e vuole annegare nell’insondabile profondità della storia e della mondanità romana». Secondo l’”Hollywood reporter” «fortunatamente il regista Paolo Sorrentino sa fare di meglio che imitare il gigantesco Fellini riparte da dove “La dolce vita” ci ha lasciati 53 anni fa». Per “Le Monde” «con le dovute proporzioni Servillo si rivela essere ciò che Mastroianni fu per Fellini», Sorrentino «ha delle belle trovate filmiche» ma «non eguaglia i suoi maestri».
Prima o poi i conti con Roma toccano a tutti a chi ci è nato, a chi ci si è trasferito, a chi ha sempre cercato di evitarla. Sorrentino, che nella capitale è andato ad abitare con la famiglia da non molti anni, aveva spesso ambientato i suoi film altrove: a Napoli, in Svizzera, a Sabaudia, addirittura negli States. C’era stato “Il divo”, naturalmente, ma lì Roma entrava di rimbalzo, quasi controvoglia. Adesso, a 43 anni, deve aver pensato che fosse arrivato il momento giusto. E infatti il titolo-omaggio “La grande bellezza” si materializza proprio dietro il panorama dei tetti cittadini, vago come una specie di miraggio.
Sullo sfondo di quella che già Moravia chiamava atonia morale, c’è la bellezza tragica della Capitale, Sant’Anselmo e Palazzo Sacchetti fanno da contrappunto alla volgarità più sfacciata e all’arroganza più esibita. Ma in questo ritratto feroce della Roma Babilonia vi si può leggere il declino di un’intera nazione. A mo’ di annuncio d’inizio spettacolo, un po’ come il gong all’Arena di Verona, nella prima scena c’è il cannone delle 12 al Gianicolo, e allargando lo zoom alle vicine fontane Sorrentino sfoggia tutto il suo estro visionario e poetico, che cozza frontalmente contro il vuoto della triste baldoria che racconta.
Poi troviamo le rovine dell’antica Roma, come ripasso felliniano. Eccoci sull’Appia antica, a Villa dei Quintili, che era la più fastosa residenza del suburbio romano già prima di diventare proprietà imperiale con Commodo (la cui meschinità) esplorata ne “Il gladiatore” crea un’armonia tossica con “La grande bellezza”. Qui Sorrentino fa scagliare una donna nuda, vestita di un velo, contro i resti di roccia, e la performer urla davanti alla platea di galleristi e collezionisti d’arte: «Io non mi amo». Servillo (il cui vicino di pianerottolo è un latitante che quando viene portato via in manette urla: «Io faccio andare avanti il paese») prova ad intervistarla. Lei recalcitra. Rivendica il mistero dell’arte, «l’artista non ha bisogno di spiegare cose, ha delle vibrazioni». Servillo incalza «che cos’è una vibrazione?» lei dice che è il suo radar per intercettare il mondo. Lui conclude rassegnato: «è l’ultima volta che intervisto una che da’ le capate al muro».
In una di queste chiacchiere attorno al nulla si discute della romanità e di un certo modo di stare al mondo, «siamo famosi all’estero per le piazze e per le pizze, Roma è collettivismo puro, è la città del marxismo attivo», perché dagli altari in una settimana ti può riportare giù a valle. Via Veneto di notte è un deserto di tavolini vuoti, di Giapponesi storditi dall’alcol, di prostitute senza clienti. Non c’è nulla della via Veneto della “Dolce vita”. All’epoca non era più una strada ma una spiaggia, come diceva Flaiano. Una spiaggia con i caffè che straripavano sui marciapiedi ognuno dei quali aveva un tipo di ombrellone diverso per i loro tavoli, come negli stabilimenti di Fregene, le automobili «scivolano come gondole a teatro, a brevi scossoni».. No, qui c’è il silenzio assordante di una via immalinconita e sepolta sotto la pietra tombale di scandali e fesserie. Via Veneto istupidita e irriconoscibile, travolta dalla sua stessa fama, ombelico di una città che al regista fa pensare a una diva morta. In un locale di via Veneto, Servillo incontra il proprietario che è un suo vecchio amico di scorribande, sua figlia è Sabrina Ferilli che fa la spogliarellista ultraquarantenne, sfidando la concorrenza spietata delle polacche ventenni.
Nei panni di un collega di Servillo, ma con ambizioni da intellettuale, troviamo Carlo Verdone, con inediti baffi e occhiali. Ha una venerazione per il re del gossip, autore di un romanzo che non ebbe seguito. Carlo, straordinario in un personaggio che poteva essere più sviluppato, recita al teatro “la cometa” i suoi versi, le sue parole che nessuno vuole portare in scena. E allora le interpreta lui. Prima di ritornarsene al paese dai genitori, a Nepi, perché Roma, come confida a Servillo in una scena girata a Caracalla, lo ha molto deluso. Il personaggio di Verdone è uno dei pochi perbene, adatta D’Annunzio per il teatro e gli amici lo esortano a tirar fuori qualcosa di suo, lui è consapevole di non avere un grande talento, «io sono così ordinario, ma non c’è di che preoccuparsi, va bene così».
FILM SU NAPOLI - Ed ora Sorrentino promette che il prossimo film sarà su Napoli, la sua città natale «è vero che sono spinto dalla curiosità, dal desiderio di conoscere. A Napoli non vivo più da sei anni, comincio a non conoscerla come vorrei. E quindi perché no? In fondo un film su Napoli non l’ho mai fatto. “L’uomo in più” era la storia di un personaggio, non di un luogo, avrei potuto ambientarlo ovunque». «Al di là di certi eccessi, la città riflette lo stato del Paese: ha avuto grandissime occasioni sul fronte della cultura, immense…ha avuto talenti, energie creative ai tempi del cosiddetto Rinascimento napoletano… Tutto è andato disperso per precise responsabilità politiche. Come a Roma, Napoli ha sempre sprecato molto. Eppure c’è stato un momento in questo non è accaduto, in cui si è realizzata una sinergia. Ci si sentiva coinvolti, “invitati". Ma a un certo punto la politica non ha “invitato” più: né gli intellettuali né i cittadini. Forse di quel periodo si ricordano troppo spesso gli errori e si dimenticano i meriti, che pure ci sono stati. Allora accadevano fatti che per la città apparivano miracoli. Quando e perché le cose sono cambiate, non saprei dirlo. Ma ricordo di aver sentito chiamare da altri amministratori un grande scrittore come La Capria “La Caprìa”, con l’accento sulla i. Ecco, sono dettagli come questo che danno l’idea del disastro». Non ci resta che attendere sperando che il film possa competer e vincere l’oscar.
Achille della Ragione