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LA MOSTRA D’OLTREMARE

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Una preziosa opportunità per il rilancio dell’economia napoletana e del Mezzogiorno
Le attenzioni che autorevoli settori nazionali della finanza, dell’economia e della politica rivolgono ai mercati del Mediterraneo “allargato”, quarta economia emergente dopo Cina, India e Brasile, per intensità non hanno forse precedenti. Gli scenari futuri, l’evoluzione dei mercati, la consistenza e la tipologia della presenza italiana in oltremare, l’insieme dei soggetti da coinvolgere e le azioni istituzionali da suscitare per ottenere un maggior peso dell’imprenditoria italiana nello scacchiere mediterraneo, costituiscono i temi più trattati in sede di studio e di divulgazione. Ma a ben guardare, si tratta però di un’attenzione geograficamente differenziata. Ancora una volta, infatti, è il Nord ad avere decisamente il primato delle analisi e delle proposte operative.


In uno dei miei ultimi incontri con Antonio Parlato, ebbi modo di commentare quello che ad entrambi appariva come un incredibile paradosso: il presidente della Camera di Commercio di Milano, Carlo Sangalli, aveva, infatti, affermato che il capoluogo lombardo era il «crocevia che unisce il sud Mediterraneo al Nord Europa, l’ovest con l’est, è da sempre ponte naturale sul Mar Mediterraneo per posizione geografica e ragioni storiche». Cioè, la stessa definizione che la retorica ottocentesca riservava, a seconda delle opportunità, a Napoli e Genova e, più vastamente, all’intera penisola italiana. 

L’enunciazione ci apparve esorbitante, ma ben presto ci dovemmo ricredere.  Pur essendo Milano lontana dal mare, Sangalli ancorava la sua rivendicazione alla poderosa rete di relazioni internazionali tessuta dalla sua Camera di Commercio con l’istituzione del Laboratorio Euro-Mediterraneo (1999) al fine di promuovere l’espansione delle piccole e medie imprese, nella regione mediterranea attraverso una capillare attività di analisi e ricerca di nuove progettualità. Dopo sei anni d’intenso lavoro prodotto dalla Promos - azienda speciale della Camera di Commercio – il Laboratorio cedeva il passo e le esperienze maturate al primo “Forum economico e finanziario per il Mediterraneo”. Nel corso di tale evento, il Presidente Berlusconi patrocinava la candidatura di Milano a sede del Segretariato Economico dell’Unione per il Mediterraneo.
Tale sponsorizzazione ovviamente non poteva non suscitare le risentite reazioni dei politici del Mezzogiorno. Tuttavia, contrariamente a quanto ci si poteva immaginare, esse si dimostrarono flebili e provenienti dalla sola Sicilia. Napoli, nonostante l’antica tradizione marinara, la presenza di prestigiose istituzioni accademiche, di un importante porto e di antiche relazioni con l’oltremare mediterraneo, non dava alcun segnale di reazione.

Eppure all’antica capitale del Mezzogiorno non sono mancati né studi, né iniziative. Il titolo di un recente studio dell’Unione Industriali di Napoli “Napoli ed il Mediterraneo. Dalle parole ai fatti” offre interessanti spunti di riflessione. L’allusione all’esigenza insoddisfatta di mutare le parole in fatti concreti che affiora dalla denominazione della monografia fa pensare alla mancanza di un volano in grado d’implementare le singole iniziative in un’unica coinvolgente strategia in grado di dare al binomio Napoli-Mediterraneo un senso compiuto. Ruolo che per storia, funzioni ed attribuzioni non poteva che essere svolto – e sia inteso senza alcuna venatura polemica - dalla Camera di Commercio di Napoli.

L’origine della missione mediterranea della Camera di Commercio di Napoli risale, infatti, al 1906 quando, sull’onda del successo di pubblico e di espositori fatto registrare dall’Expò milanese, realizzata per celebrare il traforo del Sempione, il presidente Luigi Petriccione ed il presidente della Società Africana d’Italia, Enrico de Marinis, manifestarono per la prima volta l’opportunità di realizzare a Napoli un’Esposizione Industriale Permanente, finalizzata alla promozione ed allo sviluppo delle attività industriali e commerciali tra la Madre patria ed i suoi possedimenti in Africa, seppur limitati allora alla sola Eritrea. Idea questa più volte ripresa nel tempo, ma che prenderà corpo solo sul finire degli Anni ’30 per volontà di Mussolini e per la passione e l’intelligente opera di Vincenzo Tecchio, commissario di governo per l’Esposizione Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare e vice presidente del Consiglio Provinciale delle Corporazioni (Camera di Commercio).

Si trattò indubbiamente di un’opera imponente. A dar conto della rilevanza e dell’importanza strategica che tale realizzazione del Regime rivestiva per Napoli e per il Paese da un lato vi era la funzione propulsiva dell’economia locale e nazionale da svolgere in sinergia con il porto profondamente ammodernato e dall’altro i numeri impressionanti della Città dell’Impero. La superficie complessiva di 1.066. 197 mq. della Triennale era suddivisa in 642.187 mq perimetrali ed urbanizzati (36 padiglioni e numerosi impianti per complessivi 900mila mc.) e 424mila mq. destinati agli ampliamenti successivi. 185milioni di lire gli investimenti che si resero necessari per costruire ed attrezzare la Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare. Circa 20 Km di strade, 25mila m. di linee elettriche, 12 Km di rete idrica, 13 Km di rete fognaria 340mila mq. di giardini e viali alberati, 20mila piante di alto fusto, 270mila cespugli, un milione e mezzo di giornate lavorative impiegate.

Tramontata con la tragica conclusione del Secondo conflitto mondiale l’illusione imperiale, al complesso flegreo fu data (1952), dopo una parziale ricostruzione dei suoi edifici distrutti o seriamente danneggiati da tedeschi ed americani, una nuova missione: quella di testimoniare la rilevanza del lavoro italiano nel mondo. 

Con la conclusione di questa breve esperienza, la Mostra d’Oltremare ha affrontato una lunga storia fatta di degrado (i Padiglioni di Rodi, della Civiltà cristiana, dell’Albania, chiesa copta.), sotto-utilizzazione (mostre i cui benefici per l’economia napoletana non sono mai stati accertati) ed alienazioni definitive di parti rilevanti del suo patrimonio strutturale (Rai, Banco Napoli, GM…).
Ad ogni cambio di presidenza abbiamo ascoltato dichiarazioni reboanti e retoriche. Anche il presidente Nando Morra non si è sottratto a tale rituale. La nuova mission - aveva dichiarato a mezzo stampa - incentrata sulle potenzialità della MdO di interagire in rapporto al Mezzogiorno, al Mediterraneo, all’Europa si è rivelata alla distanza per una vuota dichiarazione altisonante.

In realtà, come si legge nello statuto della SpA, la presidenza dell’Oltremare è seriamente impegnata a gestire e valorizzare il patrimonio storico, architettonico, artistico ed ambientale (utilizzo dei Fondi europei), in particolare impedendo l’alienazione… anche parziale degli immobili sottoposti a vincolo architettonico, salvo poi alienarli, di fatto, con concessioni trentennali (è il caso del Palazzo degli Uffici di Marcello Canino?). 

Una riprogettazione delle strutture ricostruite poco funzionalmente negli Anni ’50, e la ridefinizione di una funzione potevano riconfigurare l’Oltremare come una grande agorà, unica nel suo genere. Un luogo – come ho già scritto in altre occasioni - ove le diversità culturali ed economiche delle genti mediterranee potrebbero con esposizioni permanenti delle loro produzioni - intellettuali e materiali - concorrere allo sviluppo di una solidarietà nuova e duratura. Una solidarietà in grado di offrire ai popoli “in via di sviluppo”, gli strumenti e le tecnologie per poter competere alla pari sui mercati internazionali e non essere costretti, come nel passato, ad offrire unicamente forza lavoro a basso costo e materie prime da asportare e a Napoli la privilegiata posizione di intermediaria tra l’economia in fase di forte crescita dei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, ed il cuore della vecchia, cara Europa mercantile.

La realtà è che la nostra classe dirigente continua a disinteressarsi di questo prezioso strumento di sviluppo e quando, per ragioni politiche contingenti ed elettorali, rivolge lo sguardo verso questa cenerentola delle nostre istituzioni, lo fa solo per strappare l’ennesimo brandello di stoffa al già lacerato abito da serva.
Lidio Aramu

 

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