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Elezioni a Napoli. Vecchi slogan, vecchie mentalità (IlMediano)

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Analisi di Amato Lamberti su Il Mediano.it
Il ricorso all’illegalità di tanta parte della popolazione di Napoli non si può continuare ad ignorare. La città cambierà solo se saranno modificati comportamenti e stili di vita.
Toccato il fondo si può solo risalire.A Napoli, questa espressione è stata usata come slogan nelle campagne elettorali per il rinnovo del sindaco e del Consiglio comunale del 1975 e del 1993. In entrambi i casi ha vinto "la sinistra", la prima volta con Maurizio Valenzi; la seconda con Antonio Bassolino.

Nel 1975 si arrivava alle elezioni nella situazione di sfascio sociale e di depressione economica e civile che si era creata in città a seguito di una emergenza, quella del "colera", che era sembrata riportare la città indietro di secoli, nei tempi bui delle pestilenze, dei roghi di fuoco purificatorio e delle processioni propiziatorie.

Nel 1993, a crollare era stata una intera classe politica, quella che aveva governato l'Italia per quaranta anni e alla quale Napoli aveva dato presidenti della Repubblica, ministri di grande peso politico, sottosegretari, oltre ad una folla di parlamentari. Sotto i colpi di "tangentopoli" caddero anche i referenti politici della città, quelli che facevano il bello e il cattivo tempo, ma poco si occupavano dei problemi della città e dei napoletani essendo molto più impegnati a coltivare gli interessi propri e quelli delle "camarille" che si erano costruite attorno.

La "rinascita" del 1975 si giocò sul confronto con i problemi della città, esplosi ad opera di continue mobilitazioni di piazza, non sempre spontanee, e sulla capacità di far fronte alle emergenze "storiche" che la città si trascinava da anni, quella della casa e quella del lavoro. Sul primo fronte, la casa, si avviò un piano di edilizia economica e popolare che mirava a spostare nella periferia est, Ponticelli e Barra, e nella periferia Nord, Secondigliano, Scampia e Miano, il disagio sociale e abitativo del centro storico della città; sul secondo fronte, il lavoro, si scelse la strada di assecondare la richiesta del "posto" che si nascondeva dietro la rivendicazione del lavoro per tutti i disoccupati.

Il terremoto del 23 novembre 1980 non diede neppure il tempo di valutare l'efficacia, almeno nei termini di capacità di controllo della conflittualità sociale, di queste scelte, perché fece tornare la città al punto di partenza, con una nuova e più forte emergenza abitativa e con una emergenza lavoro che si allargava anche a categorie nuove, come gli ex detenuti, gli ex contrabbandieri, i disoccupati organizzati.

Il "rinascimento" del 1993, dopo lo scioglimento del Consiglio comunale per ragioni di ordine pubblico, scelse una strada completamente diversa, quella della valorizzazione del giacimento culturale e simbolico di una città ricca di storia e di monumenti. L'oro, o meglio il petrolio di Napoli, come simboleggiato dall' installazione di Kounellis, un mulino a vento, montato a Ponte di Tappia, erano i monumenti, le chiese, i musei, le piazze, a cominciare da Piazza Plebiscito, i castelli, il centro antico, valorizzati come attrattori per un turismo di elite e di massa che avrebbe risolto tutti i problemi di occupazione, di vivibilità, di sviluppo della città di Napoli.

A sostegno di questa scelta si sono realizzati nuovi musei, Pan e Madre; si sono riqualificati il porto commerciale, il lungomare, da S.Lucia a Posillipo, la villa comunale, piazza Plebiscito e piazza Dante; si è iniziata la valorizzazione dei Decumani; si sono completati e aperti al pubblico i parchi di Taverna del ferro e di Scampia; si è avviata la realizzazione di una nuova linea metropolitana per collegare la zona collinare al centro città e alla periferia nord, con forte investimento artistico sulle stazioni, quasi un museo underground. L'impatto simbolico e comunicativo è stato molto forte: nell'immaginario collettivo, grazie al forte rilancio mass-mediatico, Napoli è sembrata risorgere ad antichi fasti, più immaginari che reali. Le emergenze di casa, lavoro, traffico, vivibilità, criminalità sono tornate prepotentemente alla ribalta, dopo pochi mesi di attese pieni di aspettative di cambiamento.

Le risposte sono state le stesse della fine degli anni '70: case, in periferie sempre più lontane e prive di servizi; lavoro, in società miste a totale capitale pubblico, dopo periodi più o meno lunghi di formazione professionale. L'esperienza amministrativa, iniziata nel '93, sotto il segno del "rinascimento", si chiude con la città sommersa dai rifiuti, con i turisti in fuga, con la gente esasperata dalla criminalità dilagante che a Ponticelli dà fuoco ai campi dei Rom, con la dissoluzione di ogni credibilità e fiducia nelle istituzioni da parte dei cittadini. Il mulino a vento di Kounellis da simbolo del "rinascimento" diventa, arrugginito e capace solo di lamenti sinistri, quando il vento scende impetuoso dalla collina di S.Martino, il segno del fallimento di un progetto capace solo di "sognare" il cambiamento possibile.

Anche la campagna elettorale di oggi, 2011, è segnata dallo stesso slogan: “Toccato il fondo si può solo risalire”. Ma questa volta nessuno dei candidati sindaci si è azzardato nel disegno di un orizzonte di rinnovamento capace di far sognare gli elettori. Tutti si sono limitati a sostenere che con loro cambierà tutto, verrà ripristinata la legalità, la macchina comunale comincerà a funzionare, le strade saranno riparate, il traffico sparirà, l’inquinamento sarà cancellato, ai napoletani sarà assicurato il lavoro, i giovani non fuggiranno più dalla città. Per quali ragioni e con quali progetti sarà ripristinata una accettabile condizione di vita, non si sa. Chiedono solo fiducia nelle loro capacità e nelle loro buone intenzioni. Nessuno ha pensato che forse sarebbe stato meglio ragionare sulle ragioni dei fallimenti delle precedenti amministrazioni, almeno per non ripetere gli stessi errori.

Molte possono essere le chiavi di lettura di questi fallimenti nel governo della città, che puntualmente si ripresentano, a dispetto delle migliori intenzioni, da parte degli amministratori che si cimentano, magari con troppa supponenza e alterigia, con i tanti problemi che Napoli si trascina da troppi anni. La chiave interpretativa che mi permetto di avanzare non è nuova e non solo perché da anni, anche durante la mia esperienza di amministratore, cerco di portarla avanti, attraverso la sollecitazione dell'attenzione dell'opinione pubblica, delle forze politiche e sindacali, degli operatori sociali e culturali;

- alle condizioni di miseria di una parte consistente della popolazione napoletana e alle dinamiche di popolamento dei grandi complessi di edilizia popolare, per decostruire lo stereotipo degli attori locali di un arcipelago di quartieri periferici chiusi su sé stessi, ripiegati sulla propria "identità" stigmatizzata e perciò costretti alla necessaria gestione dell'unico "business" locale: la droga;

- all'espansione a macchia d'olio nel tessuto sociale di una criminalità organizzata sempre più pervasiva e tracotante che sta cambiando, anche a livello politico e amministrativo, il sistema delle regole di azione e interazione sociale, attraverso la legittimazione di nuovi modelli di comportamento fondati sulla corruzione, sulla prevaricazione, sulla minaccia, sull'omertà, sulla connivenza, sulla violenza;

- alle situazioni di degrado urbanistico e ambientale che rendono invivibili i quartieri in cui si addensa e si accatasta la popolazione più debole e più esposta alla deriva dell'illegalità e della devianza;
- al diffondersi nella popolazione napoletana di sentimenti di insicurezza, che per alcuni riguardano l'incolumità personale, quando non la propria vita, e gli affari, e per altri l'assenza di una rete di protezione sociale capace di sopperire alle carenze delle condizioni abitative e di vita.

Non è nuova, perché è la chiave di lettura usata dai grandi meridionalisti, da Salvemini, a Villari, a Nitti, a Dorso, che hanno affrontato il tema della "questione napoletana" all'interno della più vasta "questione meridionale". Da molti anni, purtroppo, riflettere su Napoli, partendo dalla grande disgregazione sociale che la caratterizza e che non può essere messa in dubbio, per quante acrobazie intellettuali si vogliano mettere in campo, è diventata una decisione estremamente rischiosa, perché i napoletani che leggono e che fanno opinione, anche se non sono la maggioranza, non sopportano che, quando si parla di Napoli, si parli anche della città dei “miserabili” e dei “delinquenti”.

Non che neghino l’esistenza dei miserabili e dei delinquenti, anzi non fanno che lamentarsene tutti i giorni, dal mattino alla sera, in ogni occasione, indicandoli come responsabili di tutti i problemi della città, dal traffico, alla maleducazione, alla sporcizia dei mezzi pubblici, alle strade piene di buche, ai marciapiedi usati come pista motociclabile, agli impiegati che chiedono la “bustarella”, ai commercianti che imbrogliano sul peso, all’immondizia accumulata per la strada, ai lavavetri e ai mendicanti sempre più numerosi e invadenti.

I colpevoli sono sempre loro, i miserabili e delinquenti, in una parola sola, i "lazzaroni" e la loro consorteria, la "camorra", perché, come si può facilmente notare leggendo i giornali, guardando la televisione, andando a cinema, c'è sempre la camorra dietro a tutte le cose che non funzionano a Napoli; una sorta di alibi pronto all'uso, sempre a disposizione, specialmente per amministratori e politici, oltre che per intellettuali e "maitre à penser".

Perchè loro, i "lazzaroni", non sono, e non sono mai stati, Napoli, “la città da godere”, non hanno niente a che vedere con una città ricca di storia, di arte, di cultura, di monumenti, di musei, di Accademie, di Università, di palazzi nobiliari, di piazze monumentali, di fontane, di chiese, di castelli, di vedute incomparabili, di gente che sa vivere, con villa a Capri e barca a mare, che gira il mondo, frequenta Londra, Parigi e New York per il piacere del vernissage di una mostra d'arte o, semplicemente, per fare shopping. I “lazzaroni” non abitano a Napoli, ma alla Sanità, ai Quartieri, ai Miracoli, al Lavinaio, a Scampia, a Ponticelli, a Pazzigno, a Pianura: altri luoghi, che tutt’insieme fanno un’altra città, sconosciuta ai napoletani che non hanno nessuna ragione per frequentarla, la “città da temere”.

Una distinzione che gli abitanti di queste “enclaves” ben conoscono, tanto è vero che dicono “andiamo a Napoli”, quando si muovono per raggiungere via Toledo, via Chiaia, piazza Dante, piazza Plebiscito, il lungomare, la villa comunale.
Storia vecchia e distinzione secolare. Lo sviluppo, a Napoli, nella popolazione più debole e marginale, di strategie di sopravvivenza del tutto particolari, caratterizzate dal ricorso all’illegalità, a livello individuale e di gruppo, familiare e sociale, non si può però continuare a ignorare, nei suoi meccanismi sociali di produzione e riproduzione, se si vogliono, non dico risolvere, ma cominciare ad affrontare i problemi che frenano lo sviluppo complessivo, in tutte le sue componenti, della città di Napoli.

Finora si è sbagliato, anche in assoluta buona fede, ma non si può continuare a perseverare nell’errore di credere che siano sufficienti le infrastrutture di mobilità, il cablaggio della città, lo sviluppo del terziario avanzato; in altre parole, la modernizzazione del sistema di produzione e scambio economico, per produrre trasformazioni nei modelli di comportamento, negli stili di vita, negli orientamenti di valore, di quella componente della popolazione che, secondo l’espressione del Cuoco, è distante dalla modernità, “due secoli per tempo e due gradi per clima”.

Ridurre, e via via colmare questa distanza, è la sfida che bisogna decidersi, finalmente ad affrontare, con gli strumenti più adeguati di comprensione culturale e di intervento sociale.
Amato Lamberti - Il Mediano
12 maggio 2011