di Mara Duilio
L’avvincente e sconosciuta storia dell’impegno della Camera di commercio di Napoli, dal 1860 al 1940, per la riqualificazione funzionale e strutturale del porto in un libro di Lidio Aramu
17 novembre 1869. Dopo un braccio di ferro durato quasi dieci anni tra gli inglesi che vedevano minacciato il loro monopolio delle rotte per le Indie orientali, e l’Austria e la Francia che non desideravano altro, Ferdinande Lesseps consegnava al Kedivè Ismail ed al commercio mondiale il taglio dell’Istmo di Suez.
L’opera, a quei tempi colossale, riconsegnava al Mediterraneo quella centralità nei traffici commerciali che la scoperta del continente americano le aveva sottratto quattro secoli prima. Col progredire dei lavori di escavazione dell’istmo, in molti scali europei fervevano le opere per potenziare le attrezzature e le strutture
portuali, adeguandole allo sviluppo dei traffici. Parallelamente, l’attenzione dei grandi stati colonialisti cominciò a rivolgersi al controllo delle rotte nel Mediterraneo dando vita ad una competizione senza esclusione di colpi ed alla progressiva occupazione dell’Africa mediterranea ad opera di inglesi, francesi, spagnoli e italiani.
Alla fastosa cerimonia inaugurale dell’inaugurazione del Canale di Suez, tra tante teste coronate, c’era quella non meno interessata di Tito Cacace, armatore e presidente della Camera di Commercio di Napoli. Da imprenditore attento all’evoluzione dei commerci ed attaccato alla sua città, a Cacace non era sfuggita l’importanza che questa nuova via d’acqua – che consentiva di ridurre tempo e spazio alle rotte delle Indie orientali – poteva avere per lo scalo napoletano, ultimo porto europeo prima dell’attraversamento del Canale dei due mari.
Il porto di Napoli non arrivava del tutto impreparato a quell’appuntamento. Già nelle ultime fasi del regno borbonico lo scalo era stato oggetto di alcuni importanti interventi di ammodernamento: il prolungamento del molo S. Vincenzo, l’installazione del Faro lenticolare, la realizzazione di un bacino di carenaggio in muratura. Erano inoltre in fase di studio progetti di ampliamento e di costruzione degli entrepots. Allo stesso tempo, attraverso un favorevole regime fiscale, Ferdinando II aveva sostenuto la nascita del primo importante nucleo di industrie tessili e metallurgiche, intorno al quale si sarebbe dovuto sviluppare un hinterland produttivo in grado di alimentare i traffici commerciali del principale porto del Regno.
Le vicende dell’annessione del Regno delle Due Sicilie a quello Sabaudo rallentarono ed in gran parte vanificarono quanto era stato fatto dai re napoletani. Il porto – nonostante fosse l’unico concreto produttore e moltiplicatore del reddito sociale – non riusciva ad essere dimensionato alle nuove e crescenti necessità del commercio marittimo. I progetti non mancavano certo, così come non erano pochi i pregiudizi nei confronti dell’ex capitale. E contro questi, a difesa del diritto di esistere e prosperare del commerciò napoletano, si sviluppò una storia ai più sconosciuta che ebbe per protagonista la Camera di commercio ed Arti di Napoli.
A ricostruirla – con un paziente lavoro di scavo negli archivi della Camera – è il bel saggio di Lidio Aramu “La Camera sul porto – Napoli 1860-1940” Colonnese editore.
Aramu, già autore di “Dal Borgo di Fuorigrotta al Rione Flegreo”, si conferma ricercatore attento di ambiti storici ed economici napoletani poco esplorati, se non del tutto ignorati.
Il risultato, anche in questo caso, è un non trascurabile arricchimento dell’ampia letteratura storico- economica su Napoli, inserendovi a pieno titolo la Camera di commercio e gli uomini che per ottant’anni la guidarono.
Isolata dall’ex Regno e dal resto del Paese attraverso un insensato isolamento ferroviario, Napoli ben presto vide decadere le attività del suo porto. A ciò si aggiunse il declino tecnologico e amatoriale di quella che era stata la terza marina mercantile europea, travolta dalla rivoluzione innescata dal passaggio dalla vela al vapore e dagli scafi in legno a quelli in ferro. Rivoluzione che non trovò un ceto imprenditoriale reattivo e innovativo, come del resto sarebbe accaduto ancora numerose altre volte.
La quinta che faceva da sfondo a questi cambiamenti epocali era costituita da una città le cui condizioni igieniche, urbanistiche ed economiche erano decisamente al di sotto degli standard minimi.
Fu su questi nuovi temi che la Camera – faticosamente e non senza contrasti, ma comunque con passione e dedizione – avviò un impegno che non sarebbe mai venuto meno, individuando quattro grandi “questioni”: lo sviluppo dei collegamenti ferroviari, l’ampliamento delle dimensioni del porto, il suo arredamento e l’adeguamento tecnologico della flotta mercantile. Attraverso queste iniziative, la Camera si candidava a guidare la modernizzazione e lo sviluppo dell’economia portuale e di quella – che da essa strettamente dipendeva – dell’intera città, riducendo il divario che già la separava da altre aree del Regno unitario e, soprattutto, identificando e affidandole una nuova e ben definita identità economica.
Quest’ultimo aspetto si rese evidente in occasione del colera del 1884 e del risanamento dei quartieri bassi decretato dal governo.
Pietro Casilli, dando voce alla Camera, espresse le riserve del mondo del commercio sull’efficacia di una bonifica urbana incentrata sul solo diradamento degli edifici e sulla creazione del “Rettifilo”. Quinta dietro cui rimasero inalterati i livelli di povertà e gli edifici fatiscenti. La posizione assunta dalla Camera dava maggiore forza al consistente fronte del dissenso, costituito da numerosi ed autorevoli intellettuali napoletani.
L’adeguamento strutturale e funzionale del porto era, per la Camera, la giusta leva per scardinare dalla città il diffuso sottosviluppo con la creazione di lavoro vero.
Dall’Unità era trascorso oltre un quarto di secolo ma le promesse infrastrutture erano ancora lontane dall’essere realizzate. La Camera era riuscita a conseguire qualche successo ma si trattava di ben poca cosa malgrado l’impegno profuso. Il Punto Franco sul molo S Gennaro ed il prolungamento del molo S. Vincenzo erano diventati fatti.
Ma nel 1885 il presidente della Camera continuava a sollecitare a gran voce l’inizio dei lavori di ampliamento del porto previsti dal progetto di Domenico Zainy approvato da tempo, la costruzione di un moderno bacino di carenaggio, l’arredamento delle calate e delle banchine ed il loro collegamento ferroviario alla rete nazionale.
Il porto dell’Oriente aveva solo la definizione enfatica affibbiatagli dal mondo della politica. Nonostante gli aumenti dei traffici indotti dall’apertura del Canale di Suez e l’inizio dell’avventura coloniale, che assegnava a Napoli il ruolo di capolinea delle spedizioni militari in Africa ed in Estremo Oriente, nello scalo napoletano mancavano ancora i docks, i sollevatori e le tratte ferroviarie non v’era traccia. La stessa organizzazione dei servizi di dogana e delle operazioni di carico e scarico delle merci appariva datata e anacronistica.
Comunque con il procedere delle operazioni militari in Africa Orientale cominciava a crescere il coinvolgimento della Camera di commercio in iniziative di carattere coloniale. Si trattava in genere di finanziamenti concessi ad esploratori o aziende commerciali, della richiesta di linee di collegamento celere tra i possedimenti italiani d’oltremare e Napoli, senza tralasciare l’Oriente e l’Estremo Oriente da dove giungevano cotone, juta, seta.
Nel vasto panorama degli interessi della Camera non mancava certo quello di ampliare gli orizzonti commerciali dello scalo napoletano.
E per farlo non esitava a cogliere tutte le opportunità che si offrivano, in particolar modo per instaurare e sviluppare relazioni economiche con l’Oriente, l’embrionale colonia in terra d’Africa e le Americhe.
L’adesione della Camera all’avventura coloniale era comunque scevra da ogni connotato ideologico, almeno fino alla guerra di Libia.
Essa, infatti, pur corretta sotto il profilo istituzionale, era sostanzialmente ispirata alla “totale estraneità degli ideali patriottici alle attività mercantili” in quanto s’identificava esclusivamente sull’immediato tornaconto economico e, quindi distante anni luce dalla retorica e dai toni roboanti della politica.
Intanto le pressioni della Camera per completare i lavori del porto, arredarlo e dotarlo di una stazione ferroviaria al Sacramento e dei bacini di carenaggio, non accennavano a diminuire d’intensità.
Messo alle strette Costantino Perazzi, nel 1896, avviò la realizzazione della diga del bacino di carenaggio, dei collegamenti ferroviari, di due docks e l’installazione di alcune gru. La modernizzazione del porto, grazie all’impegno costante della Camera di commercio, sembrava non conoscere soste. Dopo aver favorita la costruzione dei capannoni ed il loro raccordo con la ferrovia, il governo con una convenzione con la Società d’illuminazione generale, assicurava al porto l’illuminazione e la forza motrice necessaria al funzionamento degli elevatori.
Alla fine dell’ ‘800 il porto commerciale ideato da Zainy era cosa fatta. Ma i punti di attracco come denunciava la Camera erano già insufficienti cosicché per poter procedere alla discarica e all’imbarco delle merci occorreva continuare a far ricorso all’anacronistico impiego delle barcacce e dei sandali. Tale irrazionale consuetudine, oltre ad ingigantire i tempi della movimentazione, ne aumentava insopportabilmente i costi. Peraltro già elevati per l’inconcepibile diversificazione delle tariffe di trasporto consentita dalle convenzioni statali che in pratica creava una sorta di protezionismo per il commercio marittimo genovese, a tutto discapito delle attività che si svolgevano negli altri porti nazionali.
Il persistere di tale iniquo divario - che per Luigi Petriccione, presidente della Camera di commercio di Napoli, costituiva una palese illegalità - determinò la richiesta della Camera di far sì che l’entità dello sconto praticato sui noli fosse riferito alle miglia marine e non al porto di partenza.
Mentre la Camera continuava a battersi per l’arredamento del porto, un gruppo di giovani socialisti – Lucci, Leone e Labriola – attraverso le colonne de “La propaganda” sferrava un colpo mortale all’alleanza tra politica-camorra e affarismo borghese ottenendo la condanna per l’illegale gestione del Comune del sindaco di Napoli Celestino Summonte, del suo padrino politico l’onorevole Alberto Agnello Casale e di altri personaggi di rilievo della vita economica, politica e culturale della città.
Il volume di Aramu descrive bene come quell’episodio avrebbe innescato una benefica anche se non poco contrastata reazione a catena. Prima la costituzione e le conclusioni della Commissione Saredo, ancora oggi di straordinaria attualità. Poi i lavori della Reale Commissione per l’incremento industriale di Napoli, che sollecitamente censirono e gerarchizzarono i fabbisogni per lo sviluppo. Infine la Legge speciale per il risorgimento economico di Napoli, un evento di portata storica per la città nel suo complesso, e per quei non molti soggetti – tra i quali la Camera – che si erano tenacemente battuti per un Piano organico di rilancio dell’economia cittadina e della stessa conformazione della città. Il provvedimento legislativo scritto da Francesco Nitti avrebbe dovuto favorire la realizzazione delle infrastrutture e il rilancio dell’economia napoletana.
In realtà, per motivi di varia natura, trovò condizioni favorevoli di attuazione solo a partire dalla fine degli anni Venti, quando il fascismo – e Mussolini in particolare – iniziarono a tratteggiare per Napoli un grande disegno di trasformazione urbanistica, economica e d’identità stessa in chiave coloniale. In questo disegno la Camera avrebbe giocato un ruolo di primissimo piano, impegnandosi strenuamente per favorire la creazione di un forte hinterland industriale al servizio del porto, e il radicale ridisegno e ammodernamento di quest’ultimo per adeguarlo alla missione affidatagli.
In quella fortunata coincidenza tra identità cittadina, missione economica del territorio e ruolo del porto, si sarebbe placato lo storico braccio di ferro – spesso dal carattere “donchisciottesco”– che per più di mezzo secolo aveva contrapposto la Camera ai Governi centrali, alle amministrazioni comunali, alle burocrazie varie, ai conflitti di competenze, alle inadempienze delle ditte appaltatrici. Una lotta estenuante, spesso condotta anche al proprio interno, ma non priva di risultati anche esaltanti. Sostenuta da personalità prestigiose come Casilli, Girardi, Placido, Salvia, Chimirri ed agevolata da altrettanti autorevoli ministri dei Lavori pubblici napoletani o eletti nei collegi campani: Giusso, Aubry, Gianturco e Leonardi Cattolica. Fu grazie all’ inarrestabile impegno della Camera di commercio di Napoli se questi riuscirono a far si che il porto, attraversando la guerra di Libia e la Grande Guerra, si espandesse sino al ponte sporgente Vittorio Emanuele II, in asse col Corso Garibaldi. Anche nei tristi e difficili momenti delle due guerre, la Camera non abbassò la guardia, riuscendo ad ottenere la costruzione di numerosi capannoni, l’installazioni di gru, l’entrata in esercizio dei Bacini di Carenaggio, di alcune importanti infrastrutture primarie nell’area industriale orientale.
Con il fascismo – nei cui confronti la Camera condivise l’atteggiamento di buona parte del ceto economico cittadino, dapprima ostile, poi cauto, infine di adesione – il “lungo viaggio” della Camera e del “suo” porto sembrarono trovare, a metà degli anni Trenta, un orizzonte di approdo. Mussolini che aveva riservato a Napoli un ruolo fondamentale nella politica mediterranea del governo e nella conquista dell’Impero. Il capoluogo campano riassumeva nella nuova destinazione funzionale il ruolo svolto nell’espansione coloniale italiana: dalla spedizione di Tancredi Saletta in Eritrea che segnò la nascita della colonia Eritrea, a TienTsin, da Tripoli ad Addis Abeba.
Il porto di Napoli, i suoi dirigenti e i suoi lavoratori dimostrarono un grado di organizzazione e di dedizione non comuni. Qualità più volte riconosciute pubblicamente dallo stesso Mussolini che volle donare alla città, a titolo personale, una copia in bronzo della statua di Augusto che ancora oggi indica col suo braccio teso la rotta per l’Africa Orientale dai giardini di via Cesario Console.
La “Napoli imperiale” doveva ad ogni costo strutturarsi per la nuova ed impegnativa funzione. Grazie all’Alto commissario e presidente della Camera, quest’ultima trasformata in Consiglio provinciale dell’Economia, in poco più di dieci anni il porto con le sue banchine ed i suoi arredamenti – tra cui il bacino di carenaggio più grande d’Europa ed una Stazione marittima imponente e funzionale – raggiunse l’estremo limite di Vigliena.
La Camera vedeva così realizzarsi quel progetto per cui aveva lottato per quasi ottant’anni. E non era il solo. Immediatamente a ridosso dell’area portuale era cresciuta un’area industriale costituita da una robusta presenza di entità produttive: chimiche, tessili, metalmeccaniche, navali, petrolifere. Mentre all’altro capo della città, nel Rione Flegreo completamente ridisegnato, si distendevano gli edifici di una struttura fortemente voluta dalla Camera di commercio, cui aveva lavorato fin dagli albori del colonialismo italiano in Africa: l’Esposizione Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare.
Dalla delusione cocente del “Porto dell’Oriente”, Napoli riponeva ogni speranza di riscatto economico e morale nel “Porto dell’Impero”.
Speranze destinate ad essere spazzate via inesorabilmente dalle devastazioni materiali e morali del Secondo conflitto mondiale.
La camera sul Porto
- Domenica 27 Maggio 2012 00:06
- MediNapoli