Dieci vittorie su dieci partite e qualificazione agli Europei del 2020 ottenuta con tre giornate di anticipo: sotto la guida di Roberto Mancini, l’Italia è riuscita a mettersi alle spalle il mancato accesso al Mondiale del 2018.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita”. L’incipit di una delle opere più celebri nella storia della letteratura, la Divina Commedia di Dante Alighieri, si adatta perfettamente per descrivere la situazione della Nazionale italiana di calcio al fischio finale del match di Milano contro la Svezia del 13 novembre 2017. Lo 0-0 maturato a San Siro nel ritorno del play-off valido per l’accesso al Mondiale russo del 2018 costa agli azzurri la mancata partecipazione alla fase finale della competizione calcistica più importante, riproponendo una situazione verificatasi solo una volta, ben sessant’anni prima.
La débâcle comporta le dimissioni di Carlo Tavecchio, presidente della FIGC, e l’esonero del CT Gian Piero Ventura. La mancata elezione di un nuovo presidente federale produce come effetto il commissariamento della Federazione da parte del CONI, il cui massimo dirigente, Giovanni Malagò, diviene commissario della Lega A e nomina Roberto Fabbricini commissario straordinario della FIGC, con Alessandro Costacurta nelle vesti di vice.
La selva oscura in cui si ritrova l’Italia riguarda anche l’aspetto tecnico. La sfida con la Svezia chiude l’era azzurra degli ultimi protagonisti del quarto trionfo mondiale, dal momento che lasciano Gianluigi Buffon, che successivamente avrebbe risposto alla convocazione del CT a interim Luigi Di Biagio per le sfide amichevoli con Argentina e Inghilterra del marzo 2018, Andrea Barzagli e Daniele De Rossi.
Dopo le apparizioni da sparring partner con Argentina e Inghilterra, protagoniste effettive del Mondiale russo, il 14 maggio 2018 Fabbricini e Costacurta compiono il primo passo per quello che nelle intenzioni deve essere il percorso di rinascita della Nazionale: in seguito alla rescissione del contratto con lo Zenit San Pietroburgo, Roberto Mancini viene nominato CT degli azzurri.
Il tecnico di Jesi, come fa Virgilio con Dante nella Commedia, prende l’Italia all’Inferno, ma mostra fin dalla conferenza stampa di presentazione la voglia di ricondurla ai livelli che le competono, non nascondendosi dietro frasi di circostanza: “Voglio riportare l'Italia dove merita: sul tetto del Mondo e dell'Europa. Di Europei ne abbiamo vinti pochi".
Inoltre, Mancini ha l’opportunità di migliorare il proprio rapporto con la Nazionale, sempre contraddittorio da calciatore, principalmente per frizioni con i vari CT, nel corso dei dieci anni (dal 1984 al 1994) in cui è stato convocato, al punto che, pur essendo stato il trascinatore in quelle stagioni della Sampdoria campione d’Italia e finalista in Coppa dei Campioni, le sue apparizioni in azzurro sono state soltanto trentasei, con appena quattro reti segnate.
L’obiettivo iniziale è restituire credibilità all'intero movimento e, per fare ciò, Mancini attua un profondo rinnovamento e ringiovanimento della rosa a disposizione, anche per via degli addii di gran parte dei senatori. Si passa, pertanto, dai 30,27 anni di media della formazione schierata da Ventura (con ben sei over 30) contro la Svezia ai 26,09 dell’undici iniziale di Mancini (con soli due over 30) nell'amichevole del 28 maggio con l’Arabia Saudita, la sua prima uscita da CT. Dell’infausta serata di San Siro, il “Mancio” conferma solo tre calciatori dal primo minuto: Leonardo Bonucci, Alessandro Florenzi e Jorginho.
Il primo gol dell’era Mancini porta la firma di Mario Balotelli, su cui il tecnico, suo padre calcistico, ripone grandi aspettative, come annunciato nella conferenza di presentazione: “Balotelli? Ci parleremo, probabilmente lo chiameremo, lo vogliamo rivedere come è stato agli Europei con Prandelli”. Tuttavia, dopo la scialba prestazione con la Polonia nel primo incontro della neonata Nations League, “Super Mario” scivola fuori dalle convocazioni e appare molto arduo vederlo nei ventitré selezionati per Euro 2020.
La sofferta vittoria con i modesti sauditi è il segnale che la ricostruzione non può essere di certo rapida e indolore. Non a caso, a essa fanno seguito cinque partite senza successi e il solo punto racimolato nel girone d’andata di Nations League con Polonia e Portogallo pone gli azzurri a serio rischio retrocessione nella Lega B della competizione. I nove giocatori cambiati dal CT tra le due sfide con polacchi e lusitani sono l’ulteriore segnale delle difficoltà iniziali nel trovare l’assetto più adatto alla propria squadra.
La svolta tattica giunge a ottobre, prima con l’amichevole di Genova con l’Ucraina di Andriy Shevchenko e poi con il ritorno di Nations League in Polonia. Dopo innumerevoli esperimenti, Mancini schiera in entrambe le gare la medesima formazione, riuscendo, in tal modo, a dare un’identità precisa all’Italia.
Il 4-3-3 mette in mostra i princìpi richiesti dal CT: il dominio del gioco, da attuare attraverso il possesso palla (66% con gli ucraini, 70% con i polacchi), e la riconquista in zona offensiva del pallone, da ricercare tramite un pressing alto, senza squilibrare l’assetto complessivo della squadra.
Il primo dei due dettami viene conseguito schierando finalmente insieme Jorginho, imprescindibile nell’anno e mezzo del “Mancio” in panchina (17 presenze – sempre dal primo minuto - su 19), e Marco Verratti, le cui performance con la Nazionale erano sempre state lontane dagli standard elevati raggiunti con il Paris Saint-Germain. Le indiscutibili qualità dei due calciatori in fase di palleggio, unite alla tecnica di Bonucci (il più presente con 18 apparizioni) alle loro spalle, hanno permesso all’Italia di iniziare dal basso la costruzione della manovra, superando con efficacia l’opposizione avversaria e creando spazi per arrivare con pericolosità nell’altra metà campo.
La mancanza di un centravanti corrispondente alle sue esigenze spinge il CT a schierare da falso nueve Federico Bernardeschi, abile nell’alternarsi in continuazione in questa posizione con Lorenzo Insigne, mentre Federico Chiesa, da ala destra, dà ampiezza all’azione offensiva degli azzurri, con il terzino alle sue spalle che forma una linea a tre con i due centrali.
Invece, sulla fascia sinistra, il compito di allargare le maglie difensive avversarie è affidato al terzino, libero di spingere senza particolari assilli di copertura grazie all’accentramento del pari ruolo destro. La scelta degli interpreti per tali posizioni riflette l’idea di Mancini: sulla sinistra, infatti, si sono alternati soprattutto Cristiano Biraghi, Leonardo Spinazzola ed Emerson Palmieri, con quest’ultimo che al momento appare in pole position per essere il titolare agli Europei per la velocità e la tecnica di cui è dotato; sulla destra, oltre al veterano Florenzi, hanno trovato spazio Gianluca Mancini, Armando Izzo e, da ultimo, Giovanni Di Lorenzo. I primi due, in particolare, nascendo come centrali difensivi, possono “scivolare” al fianco dei due compagni senza adattamenti troppo forzati.
La vittoria in Polonia, arrivata solo al 92’ dopo aver dominato per larghi tratti della partita, evita la retrocessione in Lega B, difficilmente digeribile a meno di un anno di distanza dal fallimento mondiale. Il successivo doppio impegno di novembre conferma l’impetuosa crescita della nuova Italia, ma al contempo ne mette in mostra le difficoltà realizzative, già palesatesi con Ucraina e Polonia.
Il 70% di possesso palla e quindici tiri totali, nonostante appena tre siano nello specchio della porta, non bastano per battere il Portogallo a San Siro, chiudendo ogni velleità di vittoria del girone e di accesso alla fase finale della Nations League. Malgrado ciò, gli azzurri sono del tutto diversi dalla versione sbiadita scesa in campo a Lisbona due mesi prima, costringendo i campioni d’Europa, privi di Cristiano Ronaldo, a una partita essenzialmente difensiva per strappare un sofferto 0-0.
La voglia di costruire e di migliorare l’identità della sua squadra spinge Mancini a confermare dieci undicesimi delle sfide di ottobre, con una sola importante eccezione: Ciro Immobile al posto dell’infortunato Bernardeschi, con conseguente rinuncia al falso nueve. L’attaccante della Lazio, però, appare spaesato nel gioco ricercato dal CT, essendo più adatto a un calcio verticale e di attacco alla profondità che a uno di palleggio e di possesso.
Il problema del gol si protrae anche nell’ultimo impegno del 2018, quando solo una rete al 94’ di Matteo Politano dà agli azzurri il successo nell’amichevole con gli Stati Uniti. Mancini torna a sperimentare, effettuando ben sette cambi rispetto al match con il Portogallo, ma mantenendo comunque costanti i concetti di gioco, segno della voglia di perseguire la strada tracciata al crepuscolo dell’anno solare.
Il successo sugli USA è il primo degli undici consecutivi che permettono a Mancini di superare il record di nove stabilito nel 1938 da Vittorio Pozzo, il CT due volte campione del mondo nel 1934 e nel 1938.
Il cammino di qualificazione agli Europei vede il consolidamento di alcune delle scommesse del primo anno del “Mancio”. Tra i tanti giocatori da lui fatti esordire (ventiquattro fino a oggi), il fiore all’occhiello è probabilmente rappresentato da Nicolò Barella, il cui “battesimo” azzurro è coinciso con l’amichevole contro l’Ucraina. Da allora, il centrocampista sardo è divenuto un punto di riferimento per l’eccellente interpretazione del ruolo di mezzala, del tutto complementare alla coppia tecnica formata da Verratti e Jorginho grazie al suo dinamismo e alla bravura negli inserimenti, certificata dalle tre reti siglate nel percorso di qualificazione e dalle parole rilasciate da Mancini stesso: "L'esordiente in azzurro che mi ha sorpreso di più? Barella è stato uno dei primi, non aveva grande esperienza e in poco tempo è diventato uno dei migliori centrocampisti italiani”.
Proprio Barella ha realizzato il primo gol dell’Italia nelle qualificazioni all’Europeo, sbloccando il match di Udine contro la Finlandia, chiuso con il definitivo 2-0 da Moise Kean, primo 2000 a esordire e a segnare con la Nazionale maggiore.
Se nelle prime nove gare di Mancini da CT, gli azzurri avevano trovato la via del gol soltanto otto volte, nelle successive dieci, tutte valide per l’accesso a Euro 2020, le reti sono state addirittura trentasette, alla stratosferica media di 3,7 a partita, secondo miglior attacco con l’Inghilterra alle spalle del Belgio.
Di certo, la caratura degli avversari affrontati ha avvantaggiato la facilità nell’andare a segno, ma è evidente come la costruzione di un’identità tecnico-tattica sempre più definita e consolidata di partita in partita abbia reso quasi naturale la maggiore prolificità sottoporta rispetto alle difficoltà emerse nel 2018.
La sperimentazione di Mancini, durante il 2019, ha riguardato soprattutto la ricerca della prima punta, orientatasi, a partire dagli impegni di settembre con Armenia e Finlandia, su Immobile e Andrea Belotti, alternati in maniera scientifica da quel momento.
I due attaccanti, inizialmente non troppo considerati dal CT per via della poca adattabilità ai princìpi di gioco da lui richiesti, hanno superato la numerosa concorrenza (sono stati dieci i centravanti puri convocati dal “Mancio”) specialmente per la costanza di rendimento mostrata con i rispettivi club dall’inizio della stagione: 13 reti in 19 partite con il Torino per Belotti, il quale, con cinque gol, è il miglior realizzatore in Nazionale nella gestione Mancini; addirittura 17 in 16 match per Immobile, capocannoniere della Serie A e capace di recente di superare il traguardo delle cento marcature con la maglia della Lazio.
L’impronta di gioco data all’Italia, cosa inusuale per una nazionale per il poco tempo a disposizione e per il continuo alternarsi dei giocatori convocati, è sicuramente il maggior merito del primo anno e mezzo di Mancini da Commissario Tecnico. La conseguenza è stata il 2019 da record: maggior numero di vittorie in un anno solare; en plein di successi nel girone di qualificazione agli Europei e passaggio del turno ottenuto con tre giornate di anticipo (mai avvenuto nella storia degli azzurri); numero più alto di vittorie dopo le prime diciannove panchine da CT (tredici, come Arrigo Sacchi).
Battendo 9-1 l’Armenia, Mancini è andato vicino a eguagliare il successo più largo della Nazionale italiana, il 9-0 inflitto agli USA il 2 agosto 1948 a Brentford, in Inghilterra. Oltre al match con gli Stati Uniti, l’Italia aveva realizzato nove reti solo in un’altra occasione, contro la Francia nel 1920, mentre aveva fatto meglio, in quanto a prolificità, nel giugno del 1928, battendo 11-3 l’Egitto.
Il lavoro compiuto finora è stato spiegato dal CT stesso: "Ho cercato di mettere in campo la squadra con più qualità possibile. Parlando la stessa lingua – dal punto di vista calcistico – si sono trovati subito in sintonia. Io mi sono limitato a dire che dovevamo essere propositivi, dovevamo ‘giocare a calcio’, mettendo in conto che potevamo correre qualche rischio”.
Il segreto, secondo il “Mancio”, sta nel coniugare questa nuova proposta offensiva con la bravura difensiva, tipicamente italiana: “Abbiamo preso qualche gol in contropiede che stona con la storia del calcio italiano, però la mentalità deve essere quella, se vogliamo cambiare qualcosa. Ma senza esagerare, perché troppo spesso ci si dimentica che l’Italia di Mondiali ne ha vinti quattro, quindi qualcosa di buono da prendere dal passato c’è sicuramente”.
La “tradizione del moderno” potrebbe essere l’espressione adatta, solo in apparenza ossimorica, per descrivere il progetto di Mancini, consapevole che non sempre tutto ha funzionato alla perfezione. Basti pensare alla doppia sfida con la Bosnia, l’avversaria più qualitativa del girone, in cui gli azzurri hanno faticato a mantenere il possesso palla con percentuali bulgare, denotando chiare difficoltà quando chiamati ad attuare la difesa posizionale. Se non impeccabile nell’esecuzione del pressing offensivo, l’Italia presta il fianco a pericolosi contropiedi, come dimostra il gol dell’armeno Alek'sandr Karapetyan nella gara di Erevan dello scorso 5 settembre.
Errori che non possono essere ripetuti quando agli Europei il livello delle squadre avversarie sarà nettamente più alto e non sorprende che Mancini abbia chiesto rivali di valore per le amichevoli di marzo, le ultime prima della rassegna iridata. Probabile che ad affrontare l’Italia siano Inghilterra e Germania, nel novero delle favorite per la vittoria della manifestazione.
In questi due test, il CT avrà modo di testare schemi e uomini al cospetto di calciatori dal comprovato valore internazionale, a distanza di quasi un anno e mezzo dalla sfida di Nations League con il Portogallo, ultima selezione affrontata dagli azzurri con un miglior ranking FIFA (l’Inghilterra è ai piedi del podio, in 4ª posizione; la Germania, invece, segue immediatamente l’Italia al 16° posto).
La poca esperienza internazionale di buona parte della rosa è il tributo da pagare alla saggia scelta di puntare su un gruppo giovane e in continuo divenire (lo testimoniano i recenti esordi di Sandro Tonali, classe 2000, Gaetano Castrovilli, tra le principali rivelazioni di questa prima parte di campionato con la Fiorentina, e Riccardo Orsolini, subito in gol nella goleada con l’Armenia).
Il primo Europeo itinerante della storia sarà ancora più importante per la Nazionale italiana, perché rappresenterà il primo vero banco di prova per molti dei ventitré prescelti da Mancini, tenendo presente che, salvo imprevisti, saranno soltanto cinque gli over 30: Salvatore Sirigu (’87), affidabilissimo vice di Gianluigi Donnarumma; la coppia difensiva formata da Leonardo Bonucci (’87) e dal capitano Giorgio Chiellini (’84), che spera di essere al 100% dopo la rottura del legamento crociato del ginocchio destro; Francesco Acerbi (’88), che ha scalato le gerarchie diventando la prima alternativa ai due centrali juventini; Ciro Immobile (’90), alla ricerca della definitiva consacrazione in azzurro.
A differenza del recente passato, dunque, l’Italia sarà ai nastri di partenza con una squadra futuribile e dal notevole potenziale, nella speranza che nel frattempo i giovani azzurri possano essere protagonisti nelle competizioni più importanti anche con i club.
Sebbene manchino ancora tre anni, il pensiero corre ai Mondiali di Qatar 2022, i primi a giocarsi d’inverno, quando l’augurio è che Mancini, dopo averla condotta fuori dall’Inferno nei panni di Virgilio, possa assumere le sembianze della “donna angelo” per eccellenza, Beatrice, accompagnando l’Italia in Paradiso.
Stefano Scarinzi
28 novembre 2019